
Inferno Canto 10° Cerchio VI

Ora sen va per un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
6 "O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi", cominciai, "com'a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
9 La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt'i coperchi, e nessun guardia face".
12 E quelli a me: "Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
15 Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
18 Però a la dimanda che mi faci
quinc'entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci".
21 E io: "Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m' hai non pur mo a ciò disposto".
24 "O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
27 La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto".
30 Subitamente questo suono uscìo
d'una de l'arche; però m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
33 Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai".
36 Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto.
39 E l'animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: "Le parole tue sien conte".
42 Com'io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?".
45 Io ch'era d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel'apersi;
ond'ei levò le ciglia un poco in suso;
48 poi disse: "Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi".
51 "S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte",
rispuos'io lui, "l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell'arte".
54 Allor surse a la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
57 Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
60 piangendo disse: "Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov'è? e perché non è teco?".
63 E io a lui: "Da me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno".
66 Le sue parole e 'l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
69 Di sùbito drizzato gridò: "Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv'elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?".
72 Quando s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
75 Ma quell'altro magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
78 e sé continüando al primo detto,
"S'elli han quell'arte", disse, "male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
81 Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'arte pesa.
84 E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr'a' miei in ciascuna sua legge?".
87 Ond'io a lui: "Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio".
90 Poi ch'ebbe sospirando il capo mosso,
"A ciò non fu' io sol", disse, "né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
93 Ma fu' io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto".
96 "Deh, se riposi mai vostra semenza",
prega' io lui, "solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
99 El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo".
"Noi veggiam, come quei c' ha mala luce,
le cose", disse, "che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s'appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta".
111 Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: "Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;
114 e s'i' fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava
già ne l'error che m'avete soluto".
117 E già 'l maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
120 Dissemi: "Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio".
123 Indi s'ascose; e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
126 Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: "Perché se' tu sì smarrito?".
E io li sodisfeci al suo dimando.
129 "La mente tua conservi quel ch'udito
hai contra te", mi comandò quel saggio;
"e ora attendi qui", e drizzò 'l dito:
132 "quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell'occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio".
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
Il mio maestro proseguiva ora lungo uno stretto sentiero,
tra le mura di Dite e le tombe roventi dei dannati (eresiarchi), ed io procedevo dietro di lui.
“Oh uomo di virtù superiore, che mi conduci attraverso
i crudeli cerchi dell’inferno”, cominciai a dire,”come a te piace, parlami e soddisfa i miei desideri.
Potrei vedere la gente che giace in questi sepolcri
roventi? Tutti i coperchi sono già alzati, i sepolcri sono aperti, e non c’è nessun demonio a fare la guardia.”
Mi rispose Virgilio: “Tutti i sepolcri verranno chiusi quando
dalla valle di Giosafat, dopo il giudizio universale, i dannati torneranno qua con i loro corpi, lasciati lassù in terra.
In questa parte del cerchio hanno il loro cimitero Epicuro e tutti i suoi seguaci,
che credono che l’anima muoia insieme al corpo.
In ogni caso, alla richiesta che hai mi avanzato, qui dentro ti verrà data subito soddisfazione, ed anche al desiderio
che hai lasciato inespresso, di poter parlare con loro.”
Ed io a lui: Mia buona guida, ti tengo nascosto il mio
desiderio solo per non darti noia, parlando troppo,
come tu stesso mi hai chiesto di fare in più occasioni.”
“Oh toscano, che attraverso la città del fuoco te ne vai
ancora in vita e parlando in modo rispettoso e gentile,
ti sia cosa grata il fermarti un poco in questo luogo.
Il tuo modo di parlare rende evidente chetu
nascesti in quella nobile patria,
verso la quale io fui in vita forse troppo molesto.”
Uscì improvvisamente questo suono, questa voce,
da uno dei sepolcri; mi accostai perciò,
intimorito, un poco di più alla mia guida.
Virgilio mi disse: “Che fai? Voltati!
Guarda là Farinata degli Uberti che si è alzato dalla tomba:
potrai vederlo tutto dalla cintola in su.”
Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo;
lo spirito di Farinata emergeva fiero dal sepolcro con il petto
e la fronte, come se avesse a sdegno le pene dell’inferno.
Le mani coraggiose e pronte di Virgilio
mi spinsero tra le tombe fino a lui,
dicendo: “Le tue parole siano misurate, moderate”.
Non appena giusi ai piedi del sepolcro di Farinata,
lo spirito mi guardò un poco, e poi, con tono quasi irato,
mi chiese: “Chi furono i tuoi antenati?”
Io ero desideroso di ubbidire e non gli nascosi
quindi le mie origini, anzi gliele esposi chiaramente; alle mie
parole, lo spirito alzò un poco gli occhi in alto, in tono ostile;
poi mi disse: “Essi, guelfi, furono fieramente avversari
miei, dei miei antenati e della mia fazione ghibellina,
tanto che per due volte li sconfissi e li caccia in esilio.
“Se è vero che furono cacciati, lo è anche che tornarono poi da
ogni parte”, risposi io a lui, “entrambe le volte; i vostri
non appresero invece mai quell’arte, del ritorno in patria.”
A quelle parole, dall’apertura scoperchiata del sepolcro, uscì,
visibile fino al mento, un’altro spirito accanto a quello
di Farinata: credo che quest’anima fosse in ginocchio.
Guardò intorno a me come per voler
vedere se ero in compagnia di qualcun’altro;
e dopo che il suo sospetto si fu dileguato,
mi disse piangendo: “Se attraverso questo carcere tenebroso
tu puoi andare grazie al tuo alto ingegno,
allora mio figlio dove è? Perché non è insieme a te?”
Dissi a lui: “Non vado in giro da solo: mi conduce attraverso
questi luoghi quello spirito che mi aspetta là, Virgilio,
e che forse il vostro Guido ebbe a sdegno, trascurandolo.”
Le sue parole ed il modo in cui soffriva mi avevano
già fatto capire chi fosse costui, Cavalcante dei Cavalcanti;
per tale motivo la mia risposta fu così esaustiva.
Scattato in piedi, lo spirito subito grido: “Come?
Hai detto “ebbe”? Non è più in vita?
La dolce luce del sole non ferisce più i suoi occhi?”
Quando si accorse della mia esitazione
nel fornirgli una risposta, subito ricadde
disteso nella tomba e non ricomparve più alla mia vista.
Invece quell’altro coraggioso spirito, rispondendo al cui invito
mi ero fermato presso quella tomba, non cambiò espressione,
non volse nemmeno la testa e non si piego neanche a guardare il compagno;
continuando il primo discorso interrotto,
“Il fatto che loro non hanno ben appreso quell’arte”, mi disse,
“mi tormenta di più di questo letto di fuoco in cui giaccio.
Ma non si illuminerà per cinquanta volte la faccia
di quella donna, Proserpina (la Luna), che governa quaggiù,
prima che tu stesso possa imparare quanto pesa quell’arte del ritorno in patria.
Augurandoti che tu possa fare ritorno nel dolce mondo dei vivi,
dimmi in cambio: perché il popolo fiorentino è così crudele
nei confronti dei Ghibellini in ogni legge che approva? “
Gli risposi: “Lo strazio e la grande strage che fecero tingere
di sangue il fiume Arbia, nella battaglia a Montaperti,
ci spinge ad emettere tali leggi nei vostri confronti.”
Dopo che lo spirito, sospirando, ebbe scosso il suo capo,
“Non c’ero là soltanto io contro i fiorentini”, disse, “né certo
mi sarei mosso insieme agli altri senza avere buone ragioni.
Ma fui soltanto io, là, ad Empoli, dove fu all’unanimità
approvata la decisione di distruggere Firenze,
l’unico che la difese a viso aperto.”
“Possa avere un giorno un po’ di pace la vostra discendenza”,
lo pregai io, “scioglietemi cortesemente un dubbio
che ha appena avvolto i mie pensieri.
Se ho ben capito, sembra che voi spiriti possiate prevedere
il futuro, quello che il passare del tempo farà accadere, mentre
sembrate al contrario ignorare gli avvenimenti del presente.”
“Noi vediamo, come chi è presbite, con una vista imperfetta”,
mi rispose, “solo le cose che sono lontane;
tanto ci illumina ancora Dio.
Quando si avvicinano o stanno già accadendo, questa nostra
capacità non ci giova più; e se altri non ci informano dei fatti,
nulla possiamo sapere della vostra vicende umane.
Puoi perciò ora comprendere bene che la nostra conoscenza
verrà completamente annullata a partire dal giorno del
giudizio, quando i nostri sepolcri saranno chiusi per l’eternità.”
Allora, dispiaciuto per non aver risposto all’altro spirito,
dissi: “Dite allora al vostro compagno, caduto nella tomba, che
suo figlio Guido non è ancora morto, è ancora insieme ai vivi;
e se di fronte alla sua domanda rimasi muto,
fategli sapere che lo feci soltanto perché fui colto
da quel dubbio che ora mi avete voi sciolto.”
Ma già Virgilio mi richiamava a sé;
pregai perciò con più premura lo spirito di Farinata
affinché mi dicesse i nomi dei suoi compagni nel sepolcro.
Mi disse: “Giaccio in questa tomba insieme ad altri mille:
qua dentro c’è Federico II di Svevia
ed il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; degli altri non parlo.”
Tornò infine nel sepolcro; io rivolsi i miei passi
verso Virgilio, poeta dei tempi antichi, ripensando a quella
sentenza di Farinata (sull’esilio) che sembrava minacciosa.
Anche Virgilio si mosse; poi, mentre camminavamo,
mi chiese: “Perché sei turbato?” Ed io diedi soddisfazione
alla sua curiosità raccontandogli delle parole di Farinata.
“Conserva nella memoria ciò che hai ascoltato profetizzare
contro di te”, mi raccomandò la mia saggia guida;
“e prestami attenzione”, e così dicendo alzo il dito al cielo:
“quando sarai di fronte al dolce raggio di Beatrice,
il cui bell’occhio è in grado di vedere il futuro in Dio,
saprai da lei le vicende che ti attendono in vita.”
Indirizzò quindi il passo verso sinistra:
lasciammo il muro e piegammo verso il centro del girono
attraverso un sentiero che termina in una valle,
la quale faceva sentire la sua nauseabonda puzza fin lassù.

Farinata è appellativo di Manente degli Uberti, di antica famiglia fiorentina di parte ghibellina, che Ciacco cita fra gli uomini degni del tempo passato (Inf. VI, 79), i Fiorentini "ch'a ben far puoser li 'ngegni".
Farinata visse a Firenze nei primi decenni del XIII secolo, mentre la città era tormentata da continue discordie.
Già nel 1239 era a capo della sua consorteria di parte ghibellina, e svolse una parte di primo piano nella cacciata dei guelfi nel 1248. Quando, in seguito alla morte di Federico II, i guelfi rientrarono in città, si riaccesero i contrasti, e questa volta furono i ghibellini ad essere costretti all'esilio.
Farinata si stabilì a Siena e, riconosciuto come il più autorevole capo di parte ghibellina, riorganizzò le forze della sua parte. Con l'appoggio degli armati di Manfredi (Pg.), figlio di Federico II, Farinata fu uno dei principali artefici della vittoria di Montaperti, il 4 settembre 1260 e, nello stesso tempo, riuscì a salvare Firenze dalla distruzione decretata dai ghibellini.
A Firenze Farinata morì nel 1264, due anni prima della battaglia di Benevento che segnò, insieme, il tramonto della potenza sveva in Italia ed il definitivo rientro dei guelfi a Firenze.
Gli Uberti furono nuovamente esiliati, ma la vendetta non risparmiò neppure i morti. Nel 1283 Farinata e sua moglie Adaleta furono accusati di eresia: le loro ossa, sepolte nella chiesa di S. Reparata, furono riesumate ed i loro beni furono confiscati agli eredi: l'impressione su Dante, appena diciottenne, dovette essere fortissima ed incancellabile anche a causa della grande personalità di Farinata.
Gli studiosi sono discordi nel valutare la fondatezza dell'accusa di eresia. Certo è che gli eretici contestavano la supremazia religiosa della chiesa di Roma, mentre i ghibellini ne contestavano l'ingerenza politica: la convergenza di finalità causò spesso una certa confusione, sicuramente alimentata dalla propaganda guelfa.

Farinata

Cavalcante de'Cavalcanti

Guido Cavalcanti
