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Canto  16

Posizione VII cerchio, 3° girone (violenti). Sul baratro tra il VII e l’VIII cerchio

 

Peccatori Sodomiti (violenti contro Dio nella natura) Pena Corrono nella landa infuocata sotto la pioggia di fuoco, senza potersi mai fermare

 

Contrappasso La pena richiama probabilmente la pioggia di fuoco che si abbatté sulle corrotte città di Sodoma e Gomorra (Gen. 19) Dante incontra Iacopo Rusticucci; Guido Guerra; Tegghiaio Aldobrandi; Gerione (custode dell’VIII cerchio)

canto-16-inferno.jpg

Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,



6quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.



9Venian ver' noi, e ciascuna gridava:
"Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava".



12Ahimè, che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.



15A le lor grida il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e "Or aspetta",
disse, "a costor si vuole esser cortese.



18E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta".



21Ricominciar, come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.



24Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,



27così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.



30E "Se miseria d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi",
cominciò l'uno, "e 'l tinto aspetto e brollo,



33la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
così sicuro per lo 'nferno freghi.



36Questi, l'orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:



39nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.



42L'altro, ch'appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.



45E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce".



48S'i' fossi stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;



51ma perch'io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.



54Poi cominciai: "Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,



57tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.



60Di vostra terra sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.



63Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi".



66"Se lungamente l'anima conduca
le membra tue", rispuose quelli ancora,
"e se la fama tua dopo te luca,



69cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n'è gita fora;



72ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole".



75"La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni".



78Così gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com'al ver si guata.



81"Se l'altre volte sì poco ti costa",
rispuoser tutti, "il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!



84Però, se campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere "I' fui",



87fa che di noi a la gente favelle".
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.



90Un amen non saria possuto dirsi
tosto così com'e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.



93Io lo seguiva, e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.



96Come quel fiume c' ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,



99che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,



102rimbomba là sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;



105così, giù d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell'acqua tinta,
sì che 'n poc'ora avria l'orecchia offesa.



108Io avea una corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.



111Poscia ch'io l'ebbi tutta da me sciolta,
sì come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.



114Ond'ei si volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell'alto burrato.



117'E' pur convien che novità risponda',
dicea fra me medesmo, 'al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio sì seconda'.



120Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!



123El disse a me: "Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra".



126Sempre a quel ver c' ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;



129ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte,



132ch'i' vidi per quell'aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,

 

sì come torna colui che va giuso
talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,

136che 'n sù si stende e da piè si rattrappa.

Ero oramai giunto nel punto da cui si poteva sentire il rimbombo
delle acque, del fiume Flegetonte, che dal cerchio settimo cadevano
nell’ottavo, rimbombo simile a quello che fanno le api intorno all’alveare,

quando tre anime si allontanarono insieme,
correndo, da una schiera che passava
sotto la pioggia infuocata in quello straziante tormento.

Venivano verso di noi ed ognuna di loro gridava: “Fermati un poco, tu, che per l’abito che indossi, sembri essere uno che proviene dalla nostra malvagia terra, Firenze.”

Ahimè, che orribili ferite vidi sui loro corpi,
sia recenti che vecchie, provocate dalle fiamme!
Ancora adesso, solo a ricordarlo, mi rattristo per ciò che vidi.

Sentendo le grida, il mio maestro Virgilio prestò attenzione a loro;
volse il suo sguardo verso di me e mi disse: “Fermati:
con costoro bisogna essere cortesi.

E se non fosse per il fuoco che scende come saette dal cielo
per la natura del luogo, direi anzi che dovresti
essere tu ad avere fretta di parlare con loro e non loro con te.

I tre ripresero, non appena ci videro fermi, la loro
solita andatura; e quando giunsero infine presso di noi,
si misero tutti e tre in cerchio e cominciarono a girare in tondo,

come sono soliti fare i lottatori, nudi ed unti,
quando fissano l’avversario e cercano una presa che possa dare loro
un vantaggio, prima di inziare a percuotersi ed urtarsi;

e ruotando in questo modo, ciascuno di loro indirizzava il suo viso
verso di me, così che i loro piedi continuavano a muoversi in direzione
opposta a quella in cui volgevano il collo.

E “Se l’orrore di questo luogo instabile, cedevole,
ti porta a disprezzare noi e le nostre preghiere” cominciò a dire
uno di loro “e lo fa anche il nostro aspetto annerito e lacerato,

possa però la nostra fama spingere il tuo animo
a dirci chi sei tu, che i piedi ancora vivi
trascini per l’inferno con tanta sicurezza.

Costui davanti a me, al quale mi vedi (procedendo in cerchio) calpestare
le orme, sebbene ora proceda tutto nudo e spellato,
fu in vita di grado maggiore di quanto tu possa credere;

fu nipote della potente Gualdrada;
il suo nome fu guido Guerra, e nel corso della sua vita
compì grandi imprese grazie alla sua saggezza ed al suo valore.

L’altro che procede dietro a me calpestando la sabbia,
è Tegghiaio Aldobrandi, il cui nome dovrebbe essere
ancora ricordato con affetto nel mondo lassù dei vivi.

Ed io, che vengo punito insieme a loro,
sono stato in vita Jacopo Rusticucci; e di certo
mi ha arrecato danno più di tutti la mia intrattabile moglie.”

Se non avessi dovuto temere il contatto con il fuoco,
mi sarei subito gettato in mezzo a loro, giù nel sabbione,
e credo anche che virgilio me l’avrebbe permesso;

ma dal momento che mi sarei invece bruciato e scottato,
la paura prevalse sulla buona volontà
che mi rendeva invece desideroso di abbracciarli.

Cominciai allora a dire: “Non disprezzo, ma tanto dolore
mi ha ispirato la vostra condizione, così tanto
che ci vorrà molto tempo prima che possa cessare totalmente,

(mi ha ispirato) non appena questa mia guida mi parlò di voi
con parole che mi fecero subito pensare che ci stava venendo incontro
gente molto importante, come voi siete.

Vengo dalla vostra stessa terra, Firenze, e sempre
le vostre opere ed i vostri onorati nomi
ho ascoltato e raccontato con tanto affetto.

Lascio l’amarezza del peccato e vado verso i dolci frutti della virtù
che mi sono stati promessi dalla mia guida veritiera, che dice il vero;
ma, prima, conviene che io scenda fino al centro della terra.”

“Possa la tua anima condurre per ancora tanto tempo
il tuo corpo (possa tu vivere a lungo)” disse ancora Rusticucci,
“e la tua fama possa vivere ancora dopo che tu sarai morto,

ma dimmi intanto se si trovano ancora cortesia e valore nella nostra
città, Firenze, adesso come erano erano soliti esserci allora,
o se invece se ne sono completamente andati;

perché Guglielmo Borsieri, che soffre la nostra stessa pena
da non molto tempo e procede là insieme ai nostri compagni,
si lamenta di continuo della situazione con i suoi racconti.”

“I nuovi abitanti (invasori) e la loro improvvisa ricchezza
hanno dato luogo ad orgoglio ed eccessi
in te, Firenze, tanto smoderati che già te ne fanno dispiacere.”

questo gridai con la faccia levata la cielo; ed i tre,
che presero il mio lamento come una risposta, si guardarono l’un l’altro
increduli, come si è soliti fare di fronte ad una verità incontestabile.

“Se anche in altre occasioni ti è costato così poco”
dissero tutti e tre insieme “soddisfare le domande altrui,
beato allora te che puoi dire quello che vuoi senza riguardi!

Perciò, ci auguriamo che tu possa uscire da questi luoghi bui
e ritornare a vedere le belle stelle,
e quando troverai il piacere di dire “Io ci sono stato”,

ricordati anche di parlare di noi alla gente.”
Poi sciolsero il cerchio, e si allontanarono tanto velocemente
che le loro gambe sembrarono ali.

Non sarei stato capace di dire Amen in minor tempo;
di quello che i tre impiegarono per sparire dalla nostra vista;
perciò Virgilio decise che era il momento di andarcene.

Io lo seguivo, e ci eravamo rimessi in cammino da poco tempo che già
il suono delle acque del fiume Flegetonte si sentiva tanto vicino
che se ci fossimo parlati avremmo fatto fatica a sentirci l’un l’altro.

Come quel fiume che scorre
dal monte Visi, da cui nasce, prima verso levante
lunga la costa sinistra dell’Appennino,

chiamato Acquacheta nel tratto superiore, prima che
scenda a valle nel suo basso letto,
e dopo aver perso a Forlì il suo nome iniziale,

rimbomba sopra San Benendetto
dell’Alpe precipitando a formare una cascata, là dove
vorrebbero costruire un castello capace di ospitare più di mille persone;

allo stesso modo, precipitando giù da una ripica parete,
risuonava in quel luogo l’acqua di colore rosso del Flegetonte,
con un boato tanto forte che in breve avrebbe fatto male all’orecchio.

Portavo legata intorno a me una corda,
con la quale avevo sperato un tempo
di catturare la lonza dalla pelle variopinta (di vincere la Lussuria)

Dopo averla slegata completamente,
facendo come la mia guida Virgilio mi aveva detto di fare,
la porsi a lui annodata ed avvolta a matassa.

Virgilio di volse poi verso destra,
e un poco lontano dalla sponda
la gettò giù sotto in quel profondo burrone.

“Bisogna per certo che ci sia qualche novità in risposta”
dicevo tra me e me “a questo strano gesto
che il mio maestro segue con un occhio tanto attento.”

Ahi, quanto devono essere prudenti gli uomini
quando si trovano a che fare con chi non solo vede cosa fanno,
ma riesce anche a guardare con intelligenza ai loro pensieri.

Virgilio mi disse: “Tra poco salirà qua sopra
ciò che sto aspettando e che il tuo pensiero sta immaginando:
conviene che a breve si mostri anche ai tuoi occhi.”

Sempre a quella verità che ha l’aspetto di una menzogna
l’uomo deve chiudere le proprie labbra finché può farlo,
così da evitare di fare la figura del bugiardo pur non avendo colpe;

ma qui non posso purtroppo tacere; e per le parole
di questa mia Commedia, lettore, ti giuro,
che prego possano a lungo riuscire non prive di grazia, che io vidi per quell’aria densa e buia venire in su, nuotando, una figura
che avrebbe stupito anche il cuore più coraggioso,

come torna in superficie colui, il palombaro, che va
a volte in profondità per liberare una ancora che si è incagliata
ad uno scoglio o ad un altro ostacolo nascosto nel mare, stendendo verso l’alto petto e braccia, e ritraendo al busto le gambe.

canto-sedicesimo-inferno-dante.jpg

Già era in loco onde s'udia 'l rimbombo

de l'acqua che cadea ne l'altro giro,

simile a quel che l'arnie fanno rombo

Dante e Virgilio sono ormai vicini al luogo in cui il Flegetonte cade nell'ottavo cerchio. Si sente già il rumore della cascata, un rumore simile a quello che fanno le api nell'alveare. Tre dannati si separano dalla schiera insieme a cui viaggiavano e corrono verso Dante, sempre tormentati dalla pioggia di fuoco, "la pioggia de l'aspro martiro". Le anime appartengono ancora alla schiera dei sodomiti e sono perciò puniti con l'eterna corsa sulla sabbia rovente, con fiamme che piovono dall'alto. I tre si avvicinano al poeta chiedendogli di fermarsi, dato che dall'abito lo hanno riconosciuto come loro concittadino. Dante indossa infatti il lucco, tipico abito fiorentino dell'epoca, inizialmente usato dai nobili e in seguito divenuto di uso comune. Nella richiesta i dannati fanno riferimento a Firenze come alla "nostra terra prava", sottolineandone subito la corruzione. Dante nel canto precedente ha rievocato i torti subiti a causa della sua onesta attività politica dalla città di Firenze  (per bocca del maestro Brunetto Latini), adesso torna a rimarcare il giudizio negativo attraverso questi nuovi personaggi. Il poeta subito nota sul corpo di costoro che l'hanno avvicinato delle piaghe causate dal fuoco, il loro corpo ne è coperto e ce ne sono sia di vecchie che di nuove. Ricordarsi di quei corpi martoriati nel momento in cui scrive l'opera gli provoca ancora dolore ("Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri"). Sentendo le grida dei tre sodomiti, Virgilio si ferma e dice a Dante che è giusto soddisfare la loro richiesta, aggiungendo che se non ci fosse la pioggia di fuoco, dovrebbe essere il poeta ad aver maggiore fretta di correre a parlare con loro ("a costor si vuole essere cortese. / E se non fosse il foco che saetta / la natura del loco, i' dicerei / che meglio stesse a te che a lor la fretta"). Le parole di Virgilio ci annunciano che si tratta di tre personaggi per cui Dante Alighieri, in quanto uomo politico fiorentino, deve nutrire grande rispetto. L'importanza dell'opera politica dei tre, agli occhi dell'autore, cancella l'infamia del peccato commesso nella sfera privata. I tre dannati vedono che i due poeti si sono fermati e riprendono il consueto modo di camminare, finché non gli arrivano vicino e, per non arrestare il loro movimento, iniziano a girare in tondo l'uno dietro l'altro. Dante ci descrive la scena con una metafora, paragona i tre ai lottatori che girano in tondo stando attenti a cogliere il momento giusto per afferrare l'avversario: "Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio, / prima che sien tra lor battuti e punti, / così rotando, ciascuno il visaggio / drizzava a me, sì che 'n contraro il collo / faceva ai piè continuo viaggio". Nel canto XV Brunetto Latini ha spiegato perché i sodomiti non possono arrestare la loro marcia, per la stessa ragione i tre sono costretti a girare in tondo pur di restare vicini al loro concittadino. Dei tre a parlare è Jacopo Rusticucci, che fu nominato nel 1254 procuratore del comune fiorentino per stabilire i patti con le città toscane, a cui i ghibellini distrussero la casa dopo la battaglia di Montaperti. Rusticucci prega Dante di non badare alla condizione misera in cui sono adesso, ma di ricordare la loro fama e, in forza di questa, ritenerli degni di sapere chi sia lui che da vivo cammina per l'Inferno ("Se miseria d'esto loco sollo / rende in dispetto noi e nostri prieghi, / ... e 'l tinto aspetto e brollo, / la fama nostra il tuo animo pieghi / a dirne chi tu se', che i vivi piedi / così sicuro per lo 'nferno freghi"). Fatta la preghiera, Jacopo presenta i suoi compagni e sé stesso. Davanti a lui c'è Guido Guerra, guelfo che comandò l'esercito fiorentino contro Arezzo nel 1255 e gli esuli fiorentini nella battaglia di Benevento del 1260 contro Manfredi, infatti di lui Rusticucci dice che "fece col senno assai e con la spada". Dietro invece c'è Tegghiaio Aldobrandi, podestà di Arezzo e comandante dell'esercito fiorentino nel 1260, anch'egli guelfo. Nel presentare sé stesso alla fine, Rusticucci dice che "la fiera moglie più ch'altro mi nuoce", dando quindi la colpa del suo peccato alla consorte la quale deve aver svegliato in lui un odio feroce contro le donne. Scoprendo chi sono i tre che ha di fronte, Dante sente la tentazione di gettarsi tra loro, ma la paura delle fiamme lo costringe a desistere. Il poeta è sicuro che, non ci fosse stato il pericolo del fuoco, nemmeno Virgilio avrebbe avuto da ridire qualora fosse sceso tra loro e li avesse abbracciati. Fatta questa riflessione, risponde ai tre dicendogli di non provare disgusto per la loro pena, ma solo un dolore tanto forte che per lungo tempo gli resterà dentro ("Non dispetto, ma doglia / la vostra condizion dentro mi fisse, / tanta che tardi tutta si dispoglia"). Aggiunge poi che le parole di Virgilio gli avevano fatto intuire che avrebbe incontrato personaggi di grande spessore e li lusinga dicendo che le sue attese erano state rispettate. Conclude spiegando di essere fiorentino e di conoscere le loro gesta, di essere in viaggio verso il luogo di eterna beatitudine ma di dover prima passare per il centro della Terra, dove è confitto Lucifero ("Di vostra terra sono, e sempre mai / l'ovra di voi e li onorati nomi / con affezion ritrassi e ascoltai. / Lascio lo fele e vo per dolci pomi / promessi a me per lo verace duca; / ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi"). Sentite le parole di Dante, Rusticucci gli augura una lunga vita e che la sua fama risplenda dopo la morte, gli chiede poi se a Firenze valore e cortesia (che qui simboleggiano educazione civile e nobiltà d'animo) dimorano ancora come era ai loro tempi. La domanda del dannato nasce dalle cattive notizie udite da Guglielmo Borsiere, cavaliere e uomo di corte fiorentino, da poco morto e unitosi a loro nella pena. Dante non risponde direttamente a lui, si rivolge direttamente alla città di Firenze: "La gente nuova e i subiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni". L'analisi politica del poeta è breve ma chiara: egli vede come origine dei problemi della città la crescita smisurata delle ricchezze, che aveva richiamato gente da tutto il contado, la quale non si era mescolata a dovere con le tradizioni locali e alimentava la corruzione morale. I tre dannati capiscono la risposta di Dante, ne lodano la franchezza e gli chiedono di ricordarli alla gente quando sarà di nuovo tra i vivi, poi fuggono via di corsa.

Dante e Virgilio riprendono la marcia e si avvicinano alla cascata formata dalla discesa del Flegetonte verso l'ottavo cerchio. Il rumore delle acque è fortissimo e Dante lo descrive paragonandolo a quello del fiume Montone, presso San Benedetto dell'Alpe, nell'Appennino emiliano. Nei versi in cui spiega l'ubicazione del Montone, Dante cita il Monte Viso, che non è il Monviso ma il Monte Veso. Circa i versi "rimbomba là sovra San Benedetto / de l'Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille esser recetto" esistono due interpretazioni differenti: alcuni leggono semplicemente un riferimento alla grande portata d'acqua della cascata, che fa un gran rumore perché ne raccoglie tanta che basterebbe per formarne mille; molti commentatori antichi invece ci videro una critica al monastero di San Benedetto d'Alpe, che aveva una piccola comunità formata da pochi monaci, e che invece Dante avrebbe voluto più numerosa; altri ancora lessero il termine "mille" come una variante di miles (termine latino che significa "soldati"), ritenendo quindi che il poeta volesse addirittura fortificato il monastero e difeso con un piccolo esercito. A questo punto Virgilio ordina a Dante di sciogliere la corda di cui è cinto e, una volta avutala, la getta nel burrone. Il poeta non capisce il motivo dell'azione del maestro e spera che accada presto ciò che egli aspetta, Virgilio ne intuisce il dubbio e lo rassicura dicendogli che presto verrà chi sta aspettando. Tra la meraviglia di Dante, che accresce la tensione dell'attesa giurando addirittura al lettore che è vero ciò che scrive, una figura risale il burrone nuotando come un marinaio che riemerge dopo essersi tuffato in mare per liberare l'ancora da uno scoglio. 

Dell'ultima parte del canto ha fatto molto discutere il significato simbolico della corda. Siamo quasi a metà dell'Inferno e fino ad ora Dante non aveva mai scritto di essere cinto da una corda, ciò rafforza la tesi che si tratti di un simbolo che solo in questa fase del poema acquisisce il significato voluto dall'autore. Secondo alcuni critici, che fanno riferimento alle parole "con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta", si tratta di un segno di penitenza con il quale il poeta in vita cercò di vincere la lussuria; per altri essa indica l'appartenenza di Dante al terzo ordine francescano; per altri ancora rappresenta la legge, di cui il poeta si libera perché in procinto di scendere tra i fraudolenti, che la violano di continuo. Le interpretazioni sono tante e non ce n'è una certa, quello della corda resta uno dei passi più enigmatici dell'intera opera.

 

Francesco Abate 

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