INFERNO CANTO 8°
Cerchio V

Inferno 1°- 33°
Io dico, seguitando, ch’assai prima che noi fossimo al piè de l’alta torre,
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li occhi nostri n’andar suso a la cima per due fiammette che i vedemmo porre, e un’altra da lungi render cenno,
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tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre. E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; dissi: «Questo che dice? e che risponde
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quell’altro foco? e chi son quei che ’l fenno?». Ed elli a me: «Su per le sucide onde già scorgere puoi quello che s’aspetta,
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se ’l fummo del pantan nol ti nasconde». Corda non pinse mai da sé saetta che sì corresse via per l’aere snella,
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com’io vidi una nave piccioletta venir per l’acqua verso noi in quella, sotto ’l governo d’un sol galeoto,
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che gridava: «Or se’ giunta, anima fella!». «Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta:
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più non ci avrai che sol passando il loto». Qual è colui che grande inganno ascolta che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
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fecesi Flegïàs ne l’ira accolta. Lo duca mio discese ne la barca, e poi mi fece intrare appresso lui;
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e sol quand’io fui dentro parve carca. Tosto che ’l duca e io nel legno fui, segando se ne va l’antica prora
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de l’acqua più che non suol con altrui. Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango,
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e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango; ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
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Rispuose: «Vedi che son un che piango». E io a lui: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani;
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ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». Allor distese al legno ambo le mani; per che ’l maestro accorto lo sospinse,
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dicendo: «Via costà con li altri cani!». Lo collo poi con le braccia mi cinse; basciommi ’l volto e disse: «Alma sdegnosa,
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benedetta colei che ’n te s’incinse! Quei fu al mondo persona orgogliosa; bontà non è che sua memoria fregi:
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così s’è l’ombra sua qui furïosa. Quanti si tegnon or là sù gran regi che qui staranno come porci in brago,
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di sé lasciando orribili dispregi!». E io: «Maestro, molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda
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prima che noi uscissimo del lago». Ed elli a me: «Avante che la proda ti si lasci veder, tu sarai sazio:
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tal disïo convien che tu goda». Dopo ciò poco vid’io quello strazio far di costui a le fangose genti,
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che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio. Tutti gridavano: «A Filippo Argenti!»; e ’l fiorentino spirito bizzarro
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in sé medesmo si volvea co’ denti. Quivi il lasciammo, che più non ne narro; ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
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per ch’io avante l’occhio intento sbarro. Lo buon maestro disse: «Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite,
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coi gravi cittadin, col grande stuolo». E io: «Maestro, già le sue meschite là entro certe ne la valle cerno,
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vermiglie come se di foco uscite fossero». Ed ei mi disse: «Il foco etterno ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
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come tu vedi in questo basso inferno». Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse che vallan quella terra sconsolata:
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le mura mi parean che ferro fosse. Non sanza prima far grande aggirata, venimmo in parte dove il nocchier forte
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«Usciteci», gridò: «qui è l’intrata». Io vidi più di mille in su le porte da ciel piovuti, che stizzosamente
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dicean: «Chi è costui che sanza morte va per lo regno de la morta gente?». E ’l savio mio maestro fece segno
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di voler lor parlar segretamente. Allor chiusero un poco il gran disdegno e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
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che sì ardito intrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada: pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
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che li ha’ iscorta sì buia contrada». Pensa, lettor, se io mi sconfortai nel suon de le parole maladette,
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ché non credetti ritornarci mai. «O caro duca mio, che più di sette volte m’hai sicurtà renduta e tratto
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d’alto periglio che ’ncontra mi stette, non mi lasciar», diss’io, «così disfatto; e se ’l passar più oltre ci è negato,
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ritroviam l’orme nostre insieme ratto». E quel segnor che lì m’avea menato, mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
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non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato. Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso conforta e ciba di speranza buona,
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ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso». Così sen va, e quivi m’abbandona lo dolce padre, e io rimagno in forse,
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che sì e no nel capo mi tenciona. Udir non potti quello ch’a lor porse; ma ei non stette là con essi guari,
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che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase
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e rivolsesi a me con passi rari. Li occhi a la terra e le ciglia avea rase d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
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«Chi m’ha negate le dolenti case!». E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri, non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
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qual ch’a la difension dentro s’aggiri. Questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta,
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la qual sanza serrame ancor si trova. Sovr’essa vedestù la scritta morta: e già di qua da lei discende l’erta,
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passando per li cerchi sanza scorta, tal che per lui ne fia la terra aperta
Riprendendo il discorso (seguitando), dico che molto prima che giungessimo ai piedi dell’alta torre, i nostri occhi si rivolsero (n’andar) in alto (suso) verso la sommità, (attratti) da (per) due fiammelle che vi (i) vedemmo accendere (porre), e un’altra rispondere al segnale (render cenno) da lontano (da lungi), tanto che l’occhio poteva (il potea) a fatica (a pena) percepirla (tòrre). Io mi rivolsi a Virgilio (mar di tutto ’l senno) e dissi: «Che cosa dice il segnale più vicino (Questo)? E che cosa risponde l’altro segnale (foco)? E chi sono coloro che li hanno emessi (che ’l fenno)?». Ed egli: «Lungo (Su per) le acque fangose (sucide) già puoi intravedere colui che è atteso (che s’aspetta), se la nebbia (fummo) della palude non te lo (nol ti) nasconde». La corda (di un arco) non lanciò (pinse) mai da sé una freccia (saetta) che andasse così veloce (snella) attraverso l’aria (per l’aere), come io vidi in quel momento (in quella) una piccola imbarcazione venire nell’acqua verso di noi, guidata (sotto ’l governo) di un solo marinaio (galeoto), che gridava: «Sei stata finalmente raggiunta (giunta), anima dannata (fella)!». «Flegiàs, Flegiàs», disse Virgilio, «tu gridi in vano (a vòto) per questa volta: ci avrai in tuo potere solo per attraversare la palude (loto)». Come chi intende (ascolta) che gli sia stato fatto un grande inganno e poi se ne rammarica, così divenne (fecesi) Flegiàs reprimendo l’ira dentro di sé (ne l’ira accolta). La mia guida discese nella barca e quindi fece entrare e anche me; e solo quando io fui a bordo (dentro) essa sembrò carica (carca). Non appena (Tosto che) io e la guida fummo nella barca (legno), l’antica prua (prora) procede (se ne va) fendendo (segando) più acqua (de l’acqua più) di quanto sia solita fare (non suol)
Mentre attraversavamo (corravam) la palude (morta gora), mi apparve (mi si fece) davanti un dannato pieno di fango, e disse: «Chi sei tu, che vieni (all’Inferno) ancora vivo (anzi ora = prima del tempo)?». Ed io: «Se io vengo, però non rimango; ma chi sei tu, che sei così sporco di fango (fatto brutto)?». Rispose: «Vedi bene che sono un dannato (un che piango)».Ed io: «Rimani, spirito maledetto, col tuo pianto e con la tua pena (lutto); poiché io ti riconosco, benché (ancor) tu sia (sie) tutto lurido di fango (lordo)». Allora allungò le mani verso la barca (per rovesciarla); per cui il maestro lo ricacciò (sospinse) prontamente (accorto), dicendo: «Vattene (Via costà) con gli altri dannati (cani)!». Mi cinse quindi il collo con le braccia; mi baciò (basciommi) il volto e disse: «Anima (Alma) giustamente sdegnosa, benedetta tua madre (colei che ’n te s’incinse)! Quel dannato (Quei) fu in terra (al mondo) una persona prepotente (orgogliosa); non vi è nessun atto di bontà che adorni (fregi) la sua memoria: per questo (così) il suo spirito (ombra) è qui infuriato (furïosa). Quanti, nel mondo (là su), si ritengono (si tegnon) grandi personaggi (gran regi), che qui staranno come porci nel fango (brago), lasciando spregevoli ricordi (orribili dispregi) di sé!». Ed io: «Maestro, sarei molto desideroso (vago) di vederlo immergere (attuffare) in questa melma (broda), prima di uscire dalla palude (lago)». Ed egli: «Prima che tu veda l’altra riva (proda), sarai soddisfatto (sazio): è giusto (convien) che tu godrai di tale desiderio (disïo)». Poco dopo vidi fare tale (quello) strazio di costui dai dannati immersi nel fango (a le fangose genti), che ancora ne lodo e ringrazio Dio. Tutti gridavano: «(Dàgli) a Filippo Argenti!»; e l’iracondo (bizzarro) spirito fiorentino si mordeva (si volvea) da solo (in sé medesmo) con i denti Lo lasciammo lì (Quivi), in modo tale che (che) non ne parlo (narro) più; ma mi colpì (mi percosse) gli orecchi un lamento doloroso (un duolo), così che fisso (sbarro) intensamente lo sguardo (l’occhio intento) in avanti. Il buon maestro disse: «Figliolo, ormai si avvicina la città di Dite, con i dannati (gravi cittadin) e con il grande numero di diavoli (stuolo)». Ed io: «Maestro, già vedo (cerno) distintamente (certe) le sue torri (meschite) all’interno dell’avvallamento (valle), rosse come se fossero uscite dal fuoco».Ed egli mi disse: «Il fuoco eterno che dentro le arroventa (l’affoca) le fa sembrare (dimostra) rosse, come tu vedi in questa parte più bassa dell’Inferno». Noi giungemmo finalmente (pur) all’interno dei profondi fossati (l’alte fosse) che circondano (vallan) quella città (terra) sconsolata: le mura mi sembrava che fossero di ferro». Dopo aver fatto (Non sanza prima far) un ampio giro (grande aggirata), giungemmo in un punto in cui il nocchiero Flegiàs gridò fortemente: «Uscite dalla barca (Usciteci), qui è l’ingresso».Io vidi sulle porte numerosissimi (più di mille) diavoli (da ciel piovuti), che irosamente (stizzosamente) dicevano: «Chi è costui che, ancora vivo (sanza morte), se ne va nel regno dei morti?». E il mio saggio maestro fece segno di voler loro parlare in disparte (segretamente). Allora frenarono (chiusero) un po’ la loro grande arroganza (disdegno) e dissero: «Vieni tu solo, e se ne vada quello che così arditamente osò entrare in questo regno. Ritorni da solo per il cammino maledetto (folle strada): ci provi, se ne è capace (se sa); poiché tu, che lo hai scortato (li ha’ iscorta) in un luogo (contrada) tanto buio, rimarrai qui». Pensa, lettore, quanto io mi persi d’animo (mi sconfortai) al suono delle parole maledette, perché pensai di non poter mai più ritornare sulla terra (ritornarci). «Mia cara guida, che diverse volte (più di sette volte) mi hai ridato (renduta) sicurezza (sicurtà) e mi hai tolto (tratto) dai gravi pericoli (d’alto periglio) che mi stavano davanti (’ncontra), non mi lasciare», dissi, «così smarrito (disfatto); e se ci viene negato il passaggio (’l passar più oltre), ritorniamo sui nostri passi (ritroviam l’orme nostre) rapidamente (ratto)». E Virgilio (quel segnor) che mi aveva condotto (menato) fin lì, mi disse: «Non temere; poiché nessuno (alcun) ci può impedire (tòrre) il nostro cammino (passo): ci viene concesso (n’è dato) da Dio (da tal). Ma aspettami qui, e conforta e nutri di buona speranza lo spirito abbattuto (lasso), poiché io non ti lascerò nell’Inferno (mondo basso)».Così il dolce padre si allontana abbandonandomi là, ed io rimango in dubbio (in forse), sicché la speranza (sì) e il timore (no) si combattono (mi tenciona) nella mente (capo). Non potei (non potti) udire ciò che disse (porse) loro; ma egli non stette là con loro a lungo (guari) che ciascuno di essi corse di nuovo (si ricorse a pruova) dentro le mura. Quei diavoli (nostri avversari) chiusero le porte in faccia (nel petto) alla mia guida, che rimase fuori e ritornò (rivolsesi) verso di me a passi lenti (rari). Teneva gli occhi bassi (a la terra) e lo sguardo (ciglia) privo (rase) di ogni sicurezza (baldanza), e diceva sospirando (ne’ sospiri): «Guarda chi mi ha negato l’accesso all’Inferno (dolenti case)!» E a me disse: «Non meravigliarti (non sbigottir) per il fatto (perch’io) mi lamenti (m’adiri), perché io vincerò la lotta (prova), chiunque (qual) si dia da fare (s’aggiri) dentro la città di Dite per impedirci di entrare (a la difension). Questo loro atteggiamento tracotante non è nuovo; poiché lo adottarono (l’usaro) già presso la porta dell’Inferno (men segreta porta), la quale (da allora) è ancora spalancata (sanza serrame). Su di essa (Sovr’essa) tu hai visto (vedestù) la scritta oscura (morta): e già oltre quella (di qua da lei) sta scendendo il pendio (l’erta), attraversando (passando per) i cerchi senza guida (scorta), un essere tale (il messo celeste) che per suo intervento (per lui) la città (terra) ci verrà (ne fia) aperta.

È il continuo del canto precedente dal momento che Dante e Virgilio si trovano ancora nel V Cerchio (dove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi): qui gli appare Flegiàs, simbolo dell'ira violenta e del fuoco, che prima scambia Dante per un dannato e poi traghetta i due poeti nella palude dello Stige. Incontrano Filippo Argenti, un essere malvagio che fa arrabbiare perfino Dante. Infine giungono alla città di Dite ma dei diavoli non gli consentono il passaggio

Sequenza varia di movimento e vivace di situazioni: la visione da lontano della città di Dite, la scena con Flegias, l’attraversamento della palude Stigia, l’articolato incontro con Filippo Argenti, lo sbarco sotto le mura di Dite, lo scontro con i demoni, e l’attesa di un evento straordinario.

io dico, continuando, le cose tralasciate prima. Si intuisce subito una forma inconsueta del poetare dantesco, non ha ripreso mai tanto addietro un inizio del Canto. Ma la spiegazione ci è data dal Boccaccio e dall'Anonimo Fiorentino che si esprimono secondo la tesi che Dante abbia ripreso dopo tanto tempo il poema, questo perché dopo l'esilio, tutti gli averi rimasero a Firenze e Dante, che intanto si trovava alla corte dei Malaspina, si fece aiutare nell'ottenere i 7 Canti lasciati in patria. Un cambiamento notevole si ha a partire da questo Canto, dal quale ha inizio l'eccezionale stilistica che ha in sè la Divina Commedia; adesso salterà subito all'occhio la vivacità e la maestria del rimare sempre più cadenzato e drammatico.
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto», disse lo mio segnore, «a questa volta:
Flegìas: sinonimo di ardere e bruciare, figlio di Ares e Crise, ripreso dall'Eneide, il poeta lo pone qui a guardia dello Stige per via dell'ira che gli aveva causato la sua morte in quanto sua figlia Coronide, fu messa incinta dal dio Apollo, venuto a saperlo Flegias per la rabbia furibonda incendiò il tempio che si trovava a Delfi e subito dopo venne ucciso dal dio che lo scaraventò nel Tartaro sotto un grande masso che faceva sì che non si movesse in contro alla sua ira, poiché poteva schiacciarlo. Il sommo non spiega esplicitamente il lavoro di Flegias qui, ma si presume sia quello di immergere le anime nel fiume oppure di passarle all'altra parte del fiume.

Filippo Argenti: era un cavaliere, come spiegano l'Ottimo e il Boccaccio, ricco, di grande stazza e di poca nobiltà e valore, il soprannome Argenti arriva dall'usanza che aveva del ferrare i suoi cavalli d'argento. Apparteneva ai Cavicciuli una famiglia collegata agli Adimari; alcuni commentatori antichi dicono che l'odio che il poeta provava verso lui e tutta la sua famiglia provenisse dal fatto che l'iracondo e i suoi parenti erano di parte Nera, o anche che l'Argenti avesse schiaffeggiato Dante oppure che si impadronì di tutti i suoi beni. Come dimostrato, il grande disprezzo che il pellegrino prova per il dannato, si elargisce verso tutte quelle persone e anime che si riempiono di orgoglio per un inutile e becera superiorità nella ricchezza e nell'avere, come nel sangue e nei privilegi, che cancella la nobiltà d'animo e i principi che una persona integra moralmente deve avere. Abile è il momento del rilascio del nome, che si traduce in un'immensa emozione creata dall'attesa, prima creata a perfezione.
«Omai, figliuolo, s’appressa la città c’ha nome Dite,

ripreso dall'Eneide il nome Dite deriva da una divinità romana che si identificava con Ade il re degli Inferi, Dante invece lo appropria direttamente a Lucifero che dopo l'avvento di Cristo è divenuto re dell'Inferno.